sabato 8 ottobre 2011

La morte del corsaro

L'America è il paese senza storia e forse per questo adora tanto le storie. Quelle di personaggi che tracciano una linea, rompono gli schemi, creano una leggenda. Specialmente se non sono i soliti buoni, ma fanno di tibie e teschi i loro emblemi.
Al Davis è stato per più di 50 anni il più personaggio dei personaggi del Football Americano. Il più criticato, crocifisso, odiato, ma anche il più intransigente. E' stato tutto, da allenatore (il più giovane di sempre, e 'coach of the year') a presidente della lega, fino a proprietario di una squadra. E sicuramente non ha mai avuto De Coubertin tra i suoi miti. Vincere è l'unica cosa che conta diceva. E lui ha vinto. Ma più che per le sue vittorie sarà ricordato per avere fatto di una squadra il suo alter ego. Prima di lui i Raiders erano una delle compagini più anonime e perdenti che abbiano mai calpestato i prati. Lui gli ha dato un'anima, la sua. Uno spirito: nero, cattivo, cinico. Sono sempre stati dei picchiatori, intimidatori fino al limite delle regole.

La sua mentalità di gioco non contemplava la pazienza. Lui non amava tanti piccoli guadagni. Voleva i giochi ad effetto. Correre e lanciare lungo, molto lungo. Giochi difficili eppure bellissimi.

Ma i tempi cambiano e dopo gli scoppiettii iniziali l'ultimo titolo risale al lontano gennaio 1984, incorniciato dalla magnifica ed epica corsa di Marcus Allen. Poi trent'anni di poco per tornare alla finale (persa) solo nel 2003.

E' stato sicuramente un rompiscatole, un incubo dei suoi allenatori. Avere un presidente che non solo capisce del gioco essendo stato un allenatore di successo a sua volta, ma che addirittura ritiene che la sua squadra debba essere un riflesso della sua anima, dei suoi istinti e pensieri non è certo il massimo che possa capitare ad un coach.

I Raiders sono stati la prima squadra che ho visto vincere un Superbowl, in quel gennaio del 1981. Lo devo dire: non ho mai avuto una grandissima passione per lui e per la sua squadra. Mi ha sempre disturbato il suo esasperato protagonismo. Non ho mai amato quello che nel calcio si chiamerebbe palla lunga e pedalare. Eppure non posso non dire che la sua morte mi ha molto intristito. Perchè in fin dei conti lo sport in america è anche e sopratutto un grande spettacolo, un grande circo. E lui ne è stato un grandissimo protagonista. Mi mancherà.






1 commento:

  1. Io non ho avuto il piacere di conoscere i suoi metodi e la sua personalità, fino a ieri non sapevo neanche chi fosse. Tuttavia da sportivo dico che ogni spirito che lascia qualcosa a qualsiasi sport merita di essere ricordato e soprattutto scoperto anche se in netto ritardo. Perché nello sport come in tutto il resto conoscere il passato vuol dire avere un'idea del futuro. E il motto "vincere non è tutto, è l'unica cosa" è quello che mi accompagna ormai da quando ho iniziato a praticare sport.

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