martedì 15 gennaio 2013

Il prezzo della conoscenza

La morte di Aaron Swartz ha riportato al centro dell'attenzione quello che chiamo il prezzo della conoscenza. Il terribile crimine di cui era accusato e chi gli faceva rischiare 35 anni di carcere era di avere sottratto e poi resi disponibili articoli scientifici da un database dell'MIT.

La questione che forse non è nota a tutti è cosa significa e quanto costa accedere alla conoscenza scientifica oggi. 

Le Università e gli enti di ricerca, le fondazioni, i privati finanziano la ricerca di base o applicata. I risultati degli esperimenti vengono pubblicati su riviste specializzate e selezionati tramite un metodo di revisione tra pari (detto peer review). Vuol dire che quando penso di avere raggiunto un risultato di un certo spessore scrivo ad una rivista di quel settore, scegliendola in base al suo impact factor. Questo numero misura quanto è popolare (e dunque autorevole) in base a quante volte vengono citati gli articoli ivi contenuti.

All'autore dell'articolo spesso viene richiesto un costo per pubblicare. Il suo lavoro sarà analizzato da terze persone, del suo settore e a lui anonime, che cercheranno per quanto è possibile di capire se si tratta di un risultato nuovo, importante e degno di menzione. Inoltre lo aiuteranno magari a migliorarlo, oppure lo rifiuteranno. Questi revisori (anche io sono tra di loro e anche di qualche rivista importante) non sono pagati ma già il fatto di essere chiamato in causa è un riconoscimento prestigioso, anche se tutto il lavoro è fatto in modo anonimo.

Il sistema in teoria dovrebbe garantire un avanzamento della conoscenza, scremando i lavori non di buona qualità e pubblicizzando i risultati migliori. Nella pratica non è sempre così, perché un po' di autoreferenzialità esiste sempre. Ovvero se una firma famosa manda un lavoro è sicuro che quello avrà più probabilità di essere pubblicato rispetto a quello di uno sconosciuto, pure se contiene delle inesattezze.

L'articolo viene dunque pubblicato e, a parte pochi casi che consentono un open access, quasi tutte le riviste, e di certo le più quotate, si fanno pagare per poterlo leggere.

Dunque una istituzione di ricerca paga per fare la ricerca, paga per pubblicare e paga poi per leggere quanto è stato pubblicato.

Per i bilanci traballanti, quello della mia Università per esempio, tali prezzi non sono sostenibili, e dunque niente riviste scientifiche. Ci si arrangia con le banche dati degli enti in cui si lavora. Ovviamente se già in Italia vi sono difficoltà è facile immaginare come nei paesi emergenti e in via di sviluppo questo problema sia estremamente sentito.

Cosa vuol dire essere tagliati fuori? Vuol dire non potere accedere a quanto di più vitale ci sia oggi: le informazioni. Vuol dire non potere crescere una classe di persone competenti, vuol dire aumentare il gap tecnologico tra ricchi e poveri.

E' evidente che gli editori hanno anche loro dei costi che qualcuno deve sostenere. Non so fare loro i conti in tasca, ma così ad occhio mi pare che i ricavi dovrebbero essere ingenti.

Questo dunque è il problema di fondo: il prezzo della conoscenza, se debba essere appannaggio di chi se lo può comperare o se invece sia più giusto che sia disponibile a tutti, in forme e modi da stabilire.

E' triste pensare che probabilmente neppure la morte di una così brillante mente riuscirà a cambiare questo meccanismo, in un mondo in cui tutto è a pagamento, perfino la conoscenza.

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